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Ortoressia: ossessione per il cibo sano

“Dottoressa sono stata molto male. Ho pensato che non avrei dovuto mangiare la ricotta industriale ma solo quella di caseificio. Ho iniziato a pensare alle conseguenze, a dirmi quanto sono stata sciocca e superficiale, ho considerato i conservanti ingeriti, le malattie…ho fatto la notte insonne”

Quello che avete appena letto è uno spaccato di una persona che soffre di Ortoressia. Coniato dal dottor Steven Bratman nel lontano 1997, l’Ortoressia si riferisce a un disturbo del comportamento alimentare. Secondo i dati del Ministero della Salute, oltre 3 milioni di persone in Italia ne soffrono e sembra che il numero sia in crescita. Quali sono i sintomi?

La persona ha dei pensieri ossessivi per mangiare cibo sano, inizia piano piano a eliminare dal proprio regime alimentare tutti i cibi considerati pericolosi può trascorrere la maggior parte della giornata pensando al cibo, seleziona quello che ha più benefici per la salute, senza considerare il gusto. Si sente in colpa se usa del cibo che non rientra nelle regole salutiste e fa il possibile per cercare di seguirle. Rinuncia volentieri a cene ed uscite e pianifica nel dettaglio la spesa e la dieta, elimina tutti i cibi che lontanamente potrebbero minare la salute, senza pero’ una fonte scientifica o autorevole ma a volte solo per sentito dire. Ha un’attenzione esagerata per il benessere della salute e un comportamento, come fare la spesa, diventa fonte di forte stress e ansia. Altri segnali possono essere l’eccessiva attenzione alla depurazione degli alimenti per paura di eventuali contaminazioni e l’ansia di nutrirsi di prodotti che non rientrano nella lista di quelli considerati ‘sani’, come ad esempio il junk food. Insomma, non si tratta di ‘semplice’ attenzione, ma di una fobia degli alimenti

Quando la persona soddisfa i propri criteri e regole allora si sente padrona di se’ stessa e capace di avere il controllo sulla propria vita.

Come potete immaginare, nel mondo attuale in cui viviamo nell’inquinamento, nella poca trasparenza delle sostanze contenute negli alimenti e dove l’attenzione per uno stile di vita salutare è in crescita, diventa difficile diagnosticare l’Ortoressia, poiché può essere scambiata per una scelta vita sana. Non tutte le persone che si prendono cura della propria alimentazione soffrono di Ortoressia.  Cio’ che fa la differenza è il tempo dedicato, quanto la scelta dei cibi sani condizioni la nostra quotidianità, il nostro umore, la nostra mente e i nostri comportamenti.  Per questo motivo bisogna prestare attenzione al tempo dedicato alla scelta del cibo. Facciamo un esempio: una persona che soffre di ortoressia non accettera’ un invito a cena cosi facilmente, studierà il posto, la qualità dei prodotti e rinuncerà se non lo riterra’ idoneo. Ricordo una paziente che mi disse: inizialmente ero agitata per la proposta di mangiare la pizza, poi sono riuscita a convincerli ad andare in quel locale dove so che l’impasto è fatto con farine locali, i prodotti usati a km 0…ecc”

Per affrontare e curare l’ortoressia si comincia riconoscendo e ammettendo la difficoltà, rivolgendosi poi a psicoterapeuti e dietisti, che potranno indicare l’iter più corretto da seguire per la gestione della disturbo.

 

Dott.ssa Veronica Gobbetto Psicologa e Psicoterapeuta

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Educazione alimentare versus Educazione emotiva

 

Parlare di alimentazione è sempre rischioso. Se ci pensate bene, la maggior parte delle persone ha una sua opinione, dispensa consigli e ci ritroviamo ad ascoltare e leggere questi contenuti ovunque. Al bar, dalla parrucchiera, nella bottega del paese, in palestra. A volte però succede che le persone si creino delle opinioni sulla base di informazioni parziali o non corrette. Chiariamo alcuni aspetti.

Da molti anni mi occupo di alimentazione, non sono una dietista, lascio alle mie colleghe il loro compito,  sono una terapeuta che si occupa della mente.

Cosa c’entra la mente con il cibo?

C’entra si, perché l’alimentazione è anche una questione di mente, non solo di corpo.

Il cibo non solo come sopravvivenza, come nutrizione, come gratificazione ma anche come oggetto di un’educazione mentale ed emotiva.

L’educazione è l’attività che si occupa dello sviluppo e della formazione di conoscenze e facolta’ mentali, sociali e comportamentali in un individuo. Si tratta quindi di apprendere, di imparare, in questo caso, ad avere un sano regime alimentare, un’attività sportiva ma anche quanto la mente può intervenire nell’apprendimento di determinati comportamenti. Facciamo un esempio.

Nel linguaggio comune parliamo di fame emotiva, problema condiviso dalla maggior parte della gente. Che cos’è? Lo sappiamo tutti. Emotional eating è presente quando la persona mangia, non per una reale sensazione di fame, ma per gestire l’emozione. Ma se la osserviamo più da vicino possiamo fare un’altra considerazione. Queste due semplici parole associate insieme, uniscono due grandi mondi, ambiti. L’educazione alimentare (fame) e l’educazione delle emozioni (emotiva). Attualmente sono due aspetti che vengono poco considerati. Mi capita molte volte di parlare con i genitori e l’aspetto educativo non riguarda né il cibo, né le emozioni. Eppure gli apprendimenti scorretti che saranno poi causa di ostacoli in età adolescenziale e adulta, nascono fin da subito. Gli adolescenti e gli adulti con problemi o disturbi legati al cibo sono sempre più in aumento. Ma facciamo fatica a legarlo all’educazione.

Ma  se mio figlio sarà aggressivo per le prese in giro riguardo al suo peso, se mia figlia sarà ansiosa perché  penserà che essere magre sarà l’unico parametro per il suo valore, se mio figlio sarà triste perché lasciato in panchina ed escluso visto la poca agilità, se mia figlia crederà che mangiarsi un barattolo di nutella la farà sentire meglio…allora capite che non è solo una questione di cibo o di emozione ma che queste associazioni e abitudini si imparano e si esprimono nel nostro quotidiano.

Il comportamento nasce dall’emozione, e l’emozione è veicolata dalla mente. Spesso in presenza di bambini, viene offerto cibo e lo si lega all’emozione “ Ti sei fatto male? vieni che ti do una caramella…ma che bravo che sei, vuoi un cioccolatino?…non piangere ci mangiamo un biscottino…se stai buono, ti do un lecca- lecca.”

Lo si fa senza pensare, senza darci il giusto peso. Molte volte il cibo viene usato per ottenere qualcosa.. Pensate alle mamme che danno il biscotto perché è “l’unica cosa che mangia, almeno quello no?”

Ma se invece facessimo un giro di boa, se andassimo controcorrente e iniziassimo a educare noi stessi e i nostri figli a mangiare in modo corretto?

Se imparassimo che l’emozione di tristezza o frustrazione può essere gestita in modo diverso associandola a un’azione piacevole, non necessariamente al cibo che dovrebbe essere fonte di sopravvivenza e non di consolazione o gratificazione?

Educazione significa informarsi, trasmettere, permettere ai nostri figli di imparare delle abitudini, fare anche piccole scelte quotidiane che ci permettono di vivere meglio. Allora ai vostri figli, fin da piccoli, insegnateli a mangiare un cubetto di cioccolata fondente piuttosto che il kinder, a gustare i legumi piuttosto che wurstel e patatine e a riconoscere un’emozione negativa e insegnargli a legarla a una canzone divertente, a una risata, al suo libretto preferito. I bambini imparano senza fatica. Ma imparano quello che vedono, che sentono, che l’adulto gli trasmette. Non rassegnamoci all’idea che il carattere e il gusto siano degli ostacoli. Hanno il loro peso, ma molto ridotto rispetto a quello che noi pensiamo.

E allora mettiamoci all’opera.

Educhiamo all’alimentazione.

Educhiamo alle emozioni.

Così che questa famosa fame emotiva non sia più un problema reale ma solo un lontano ricordo.

 

Dott.ssa Veronica Gobbetto Psicologa e Psicoterapeuta

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Educare all’attività fisica

La definizione di “educazione” implica l’apprendimento dell’insieme delle norme, delle attività che sviluppano nell’uomo determinate facoltà e attitudini. Nelle scuole esiste una materia chiamata “educazione fisica”, che ha il compito di trasmettere un profondo messaggio dell’importanza di fare attività motoria. Ma spesso non accade o perlomeno rimane solo quell’ora chiusa tra parentesi che non viene accentuata e enfatizzata nel resto del tempo. Proprio qualche giorno fa parlavo con una paziente di fare attività fisica e la risposta è stata “…penso di non aver voglia, di non essere stata abituata…” Qui sta il problema. Non siamo stati educati, cioè non abbiamo imparato a muoverci, a ripetere questo comportamento fino a farlo diventare automatico. In effetti noi assumiamo dei comportamenti che riteniamo parte della routine e non facciamo nessuna riflessione su di essi. Mi alzo, mi lavo, mi vesto, comportamenti che nell’educazione condivisa sono fondamentali e i genitori trasmettono e sottolineano quotidianamente questo tipo di insegnamento, valutandoli come priorità. Questo mi ricorda Maslow che negli anni tra il 1940-50 delineò una piramide di bisogni primari (bisogni fisiologici come fame e sete, bisogni di protezione, bisogni di appartenenza, bisogni di stima, di successo, bisogni di realizzazione di sé). Ora non trovo il bisogno di assumere un’attività fisica che permetta all’organismo di mantenere uno stato di salute.

Che Maslow avesse sbagliato??

Temo proprio di no!!Ciò che è certo è che lo studioso viveva ancora in un’epoca (il dopo guerra), in cui il cibo non era in esubero, eccessivo come in questi ultimi vent’anni, non c’erano problemi di obesità e sovrappeso, non esistevano malattie croniche dovute a una malnutrizione e dubito fortemente che l’Organizzazione Mondiale della Sanità parlasse dell’obesità in termini di epidemia!!

Ora tutto questo esiste, il 2000 è stato un anno di svolta in cui il numero di persone in sovrappeso è stato maggiore di quello in sottopeso. Non voglio soffermarmi su una disquisizione rispetto al progresso e a ciò che ha portato. Pongo la lente di ingrandimento sull’importanza di educare le nuove generazioni all’attività fisica, non solo sportiva, perché ricordiamo che possiamo essere persone sedentarie che fanno sport!! Insegnamo loro ad avere un stile attivo nella quotidianità, insegnamogli che è meglio una corsa con l’amico che una partita di playstation, a prendere la bici piuttosto che farsi accompagnare, a suggerirci di parcheggiare lontano piuttosto che fuori dal negozio. Educhiamoli, come gli insegnamo a lavarsi i denti, a salutare quando si incontra una persona, a scusarsi se si crea un danno. Permettiamoli di entrare nella mentalità che l’attività fisica quotidiana ha la stessa valenza di respirare, mangiare, lavarsi.

E non cadiamo nel tranello di credere che la salute non abbia questo logaritmo. Gli ingredienti ci devono essere tutti e l’aspetto del muoversi è un pilastro che nell’attuale scenario storico, culturale e sanitario prende una valenza necessaria e indispensabile.

E allora non aspettiamo domani. Iniziamo oggi, stasera, ora. Infiliamo le scarpe e usciamo a camminare con l’idea che domani ripeterò quest’azione con un solo importante pensiero:”educarmi a uno stile di vita attivo!”

 

Dott.ssa Veronica Gobbetto Psicologa e Psicoterapeuta

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Esiste uno stress positivo?

Esiste uno stress positivo?

 

Parlando di stress diamo per scontato che si tratti di qualcosa di negativo e per questo poco utile.

In realtà le cose sono più complesse ed interessanti di come possono apparire.

Per capire dobbiamo introdurre un concetto fondamentale, cioè quello di resilienza: resilienza è un  termine coniato in ambito metallurgico che definisce la capacità di resistenza di un metallo a uno sforzo prima di rompersi. Questo concetto è stato riadattato dagli psicologi e utilizzato per indicare la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Descrive la capacità di un individuo di resistere alle difficoltà della vita senza farsi travolgere e di  affrontare le situazioni problematiche e complesse in modo adeguato e funzionale.

Non è una qualità magica, ma una capacità che si può apprendere con l’esperienza, esercitando un atteggiamento consapevole verso i propri limiti e potenzialità, imparando ad utilizzare le seconde in supporto dei primi. Ognuno di noi possiede dei “fattori di protezione” che intervengono e contribuiscono a supportare la persona nei momenti di difficoltà e che comprendono le risorse personali (autostima, autoefficacia, percezione del controllo), familiari (sostegno e vicinanza dei familiari) e sociali (rete sociale e amicale).

L’essere umano è provvisto di meccanismi biologici che hanno lo scopo di permettere la sopravvivenza e che si attivano in maniera automatica. Quanto più esercitiamo la percezione dei nostri limiti e di ciò che ci crea difficoltà, tanto più diventiamo consapevoli dei nostri meccanismi di funzionamento e di noi stessi.

Conoscenza di sé significa anche distinzione tra fattori positivi e negativi dello stress.

Si definisce eustress un stress positivo, cioè quelle situazioni di tensione minima che ci permettono di attivare al meglio le nostre risorse per superare delle prove. Rappresenta un’attivazione che ci rende vigili e reattivi, un’attenzione centrata sul compito.

Per esempio lo stress derivante dall’impegno lavorativo intenso, se accompagnato da un’ attività sportiva o rilassante, può portare a grandi soddisfazioni e realizzazioni.

Con  distress si intende quella quantità di stimolazioni di varia natura che impattano in modo emotivamente potente e destabilizzante su di noi. Essi arrivano al nostro organismo in breve tempo e se non trovano un adeguato e funzinale canale di sfogo o gestione, agiscono negativamente sulla qualità del nostro equilibrio. Se non sufficientemente gestito e sfogato lo stress diventa negativo e disfunzionale.

Ancora una volta l’attività fisica rappresenta uno strumento fondamentale per una corretta e sana gestione dello stress.

 

Dott.ssa Barbara Casagrande Psicologa e Psicoterapeuta

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Che cos’è il benessere?

Che cos’è il benessere?

Quando parliamo di benessere, ci riferiamo ad uno stato che riguarda tutti gli aspetti dell’essere umano e che caratterizza la qualità della vita di ogni persona.

Ma che cosa s’intende per benessere? L’Oms lo definisce come “lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società”. Ci si riferisce quindi ad un modello biopsicosociale in cui diversi sono i fattori in relazione ( sociali, psicologici, biologici) e che non riguarda solo l’assenza di sintomi o malattia.

Quando si parla di benessere non si può non parlare dei fattori di stress che lo minano.

Ma cosa si intende per stress?

Possiamo definirlo come la risposta dell’organismo umano a più eventi che sono stati chiamati stressor, che ne alterano l’equilibrio omeostatico. Per equilibrio omeostatico s’intende per l’appunto la sensazione di benessere: ci si sente bene con il nostro corpo, c’è un equilibrio tra componenti fisiche e psichiche, siamo atletici, vitali, sereni.

Gli eventi che possono modificare il nostro equilibrio possono essere di natura fisica, chimica o psicosociale. In particolare gli stressor che appartengono alla sfera psicosociale sono distinguibili in due categorie: i life events  e i daily stress.

I life events sono quelle circostanze di natura ambientale o legate a cambiamenti di vita, che  richiedono all’individuo un riadattamento sociale (morte di un coniuge, separazione, divorzio, matrimonio, nascita di un figlio, cambiamento economico, cambio residenza, inizio della scuola, pensionamento, problemi sul lavoro ecc…): essi definiscono la relazione che intercorre tra gli eventi di vita e l’insorgenza di una patologia: per esempio come un evento luttuoso incida sullo sviluppo di una malattia, fisica o mentale. In questa definizione va tenuto in considerazione che esiste una decodifica personale e soggettiva che rende più o meno probabile l’evoluzione in un senso o nell’altro di una situazione.

I daily stress, o stress giornalieri, comprendono i piccoli o grandi eventi quotidiani che toccano le nostre esistenze: scioperi, utilizzo dei mezzi, traffico, lavoro routinario o noioso, file e code, vicini rumorosi, vivere con una parente malato, schiamazzi notturni ecc. In ordine di tolleranza questi stressor risultano più stressanti dei life events in quanto due fattori, cioè il tempo e la ripetizione ostacolano il naturale ritorno all’equilibrio a cui l’organismo umano tende per natura. Cioè un evento stressante che si ripete nel tempo non consente il recupero dell’ equilibrio.

Esiste anche un altro fattore, il grado di novità di un evento sull’individuo: è stato dimostrato che persone diverse a fronte dello stesso evento non conosciuto hanno un innalzamento delle quote del cortisolo (l’ormone dello stress) nel sangue maggiore rispetto a persone informate dei fatti. Inoltre, la percezione soggettiva della possibilità di evitare un evento o al contrario l’impossibilità di farlo, influisce sulla reazione messa in atto.

 

Dott.ssa Barbara Casagrande Psicologa e Psicoterapeuta

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